2018, anno europeo del patrimonio

di *Rosaria Mencarelli


2018, anno europeo del patrimonio. Il ruolo della cultura.

Gli ultimi mesi appena trascorsi, settembre ed ottobre, sono stati contrassegnati da due appuntamenti di lavoro ormai consolidati, la tappa mantovana di  Artlab, in cui operatori culturali, società civile, amministratori pubblici, imprese e policy makers condividono esperienze e conoscenze sulla e per la cultura, e RavelloLab, think tank dedicato da molti anni alle politiche culturali. In entrambe le occasioni gli argomenti all’ordine del giorno sono stati preceduti da un ampio preambolo di presentazione e discussione sull’evento cardine per la cultura europea: 2018, anno europeo del patrimonio.
Nelle intenzioni della Commissione Europea non dovrà essere una delle tante ricorrenze che sempre con maggiore frequenza vengono varate per accendere i riflettori sul patrimonio culturale, materiale e immateriale. Sarà invece un’occasione decisiva per mostrare, non soltanto in Europa ma a livello globale, quanto determinante possa e debba essere il ruolo della cultura nell’indifferibile processo di ricostruzione – e forse di rifondazione – di un’identità europea davvero condivisa.

Si tratta di un’occasione nella quale ogni nazione, ogni comunità, potrà, in una logica di ampio respiro, portare il proprio contributo e la propria personale esperienza nell’interpretare il concetto di patrimonio culturale. Come più volte è stato sottolineato, parlare di patrimonio culturale significa oggi ragionare soprattutto sul futuro, sul senso che dobbiamo dare alle policy europee, ma prima ancora nazionali, a favore del  patrimonio culturale; significa prendere maggiore e definitiva consapevolezza della caduta delle barriere tra dimensione tangibile, intangibile e digitale; obbligarci a guardare alla creazione culturale e alla conservazione del patrimonio come a un ciclo unico, perché prendersi cura del patrimonio culturale significa anche promuoverne la rigenerazione, sostenere la creatività contemporanea e lo sviluppo sociale ed economico.

Si è compiuto negli ultimi decenni un percorso del quale di tutto ciò non sempre si è avuta adeguata percezione e tanto meno consapevolezza ma che oggi ci appare in tutta la sua evidenza, mettendo anche in luce che il patrimonio culturale è una risorsa per l’economia, la cultura, la società e l’ambiente; bisognerà anche prendere definitivamente atto che per massimizzare questi benefici non è sufficiente limitarsi alla salvaguardia e alla conservazione: bisogna promuovere contaminazioni creative, superare l’approccio settoriale, e lavorare meglio insieme, istituzioni europee, amministrazioni nazionali, società civile, istituzioni culturali e comunità locali. Non a caso la Commissione europea ha focalizzato e sta sviluppando iniziative trasversali a settori diversi che si possono riassumere in quattro pilastri:

Protezione: promuovere la qualità negli interventi sul patrimonio culturale, migliorare la gestione dei rischi e intensificare la lotta al traffico illecito.
Sostenibilità: valorizzare il potenziale del patrimonio culturale nelle strategie di sviluppo locale, anche attraverso il riuso e il turismo culturale.
Coinvolgimento: sensibilizzare al valore del patrimonio culturale in particolare i giovani.
Innovazione: promuovere la ricerca e favorire l’utilizzo dei risultati, incentivare la partecipazione attiva.

Su questi presupposti  si basa il senso di questo contributo, provando a misurarsi con uno sguardo al futuro, che forse è già qui.
Come si riconduce tutto ciò allo specifico contesto nazionale? E in questa ampia cornice quali opportunità si aprono per i patrimoni locali? E in tutto ciò, quale è il ruolo degli istituti del Ministero sui territori?
La recente riforma amministrativa del MiBACT ha separato le attività della tutela da quelle della valorizzazione, investendo delle prime le Soprintendenze “uniche”, lasciando il compito della valorizzazione del patrimonio ai musei autonomi e ai Poli museali. Non poche sono state le critiche o le manifestazioni di plauso, i dubbi e le certezze sulla bontà di tale nuovo assetto.
Volendo uscire da questo dualismo e dalla polemica che ha generato, a volte inutilmente, vorrei concentrarmi sul territorio, il luogo fisico dove si dispiegano le testimonianze materiali e immateriali della vita dell’uomo, quella sommatoria di testimonianze e di valori che da luogo al cultural heritage, anche quello conservato nei musei.

Il territorio è il luogo dove noi tutti viviamo, operiamo, creiamo, lasciamo tracce che stratificate nel tempo costituiranno testimonianza  della nostra cultura, segni che altri dopo di noi riterranno, o no, meritevoli di essere conservati perchè portatori di valori ancora condivisi. Vista così, la questione si pone nei termini  aperti dalla Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società, che traccia il quadro di diritti e responsabilità dei cittadini nella partecipazione al patrimonio culturale, muovendo dal diritto dell’individuo a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità e di godere delle arti, così come è  definito nell’art. 27 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Questo è il vero punto di non ritorno: oggi parole come patrimonio, museo, territori, cultura, hanno concettualmente senso solo se considerano per acquisiti i principi espressi in questo storico documento che anche l’Italia ha da poco ratificato.
Muovendo da questa cornice, proviamo ad approfondire l’immagine che si vien delineando secondo i quattro pilastri ai quali ho accennato poco fa:

Protezione: promuovere la qualità negli interventi sul patrimonio culturale, migliorare la gestione dei rischi e intensificare la lotta al traffico illecito.
L’Italia è la patria del restauro, delle teorie e delle prassi sulla conservazione: alle teorizzazioni di Cesare Brandi, Giovanni Urbani, Alessandro Conti, si affiancano grandi storie come quella dell’ISCR e dell’OPD. Vorrei solo ricordare la bella coincidenza dell’anno 1939, nel quale si registrano la fondazione dell’Istituto centrale per il restauro e la promulgazione della legge 1089 , la prima organica legge di tutela  del patrimonio prodotta in Italia. Siamo dunque figli di una storia centenaria che nel tempo ha sempre costantemente puntato alla protezione del patrimonio e alla qualità della sua conservazione.  Promuovere la qualità degli interventi sul patrimonio culturale è il primo passo per garantire alle testimoniante materiali della nostra storia una possibilità di sopravvivenza verso il futuro. In questo tutto il mondo ci riconosce il primato. Tutela e restauro sono due capisaldi che contraddistinguono le attività del nostro paese e che abbiamo anche esportato all’estero.
Tuttavia nulla rimane immutabile: la lunga crisi economica che ha caratterizzato l’ultimo decennio ha contribuito a rendere ineludibile una realtà che per molto tempo abbiamo preferito ignorare: l’insostenibilità della tutela e della conservazione del patrimonio archeologico, artistico ed architettonico all’interno di un modello d’intervento in cui il Pubblico (Stato, Regioni, Enti locali) è il principale attore economico.

La dimensione del patrimonio Italiano è tale da eccedere qualsiasi disponibilità di risorse pubbliche, anche volendo per un attimo pensare che da domani si renderanno disponibili volumi finanziari inimmaginabili e che la cultura diverrà la priorità numero uno dei decisori politici. Certamente la cultura è una priorità, e certamente è ormai acclarato il ruolo che essa riveste nelle politiche di welfare e di sviluppo. Tuttavia il nodo è qui e non riguarda solo le politiche per il patrimonio: il vero nodo è la possibilità, alle attuali condizioni, di espansione indefinita delle politiche di welfare e di sviluppo; e la tutela, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio non sono che un sottoinsieme di questo comparto, in competizione con ambiti altrettanto importanti di servizi e tutele sociali.
Allora, prendendo coscienza dei limiti delle risorse, abbandonando l’atteggiamento politicamente corretto ma onirico e un po’ipocrita di una possibile tutela e conservazione del tutto, è importante, direi determinate, porsi il tema di chi decide cosa conservare e soprattutto perché e per chi. Forse, come già un decennio fa sosteneva Andreina Ricci, dovremmo “familiarizzarci con il concetto di perdita”, data l’impossibilità di conservare tutto. Ma a chi va rimessa la decisione di cosa conservare?, chi deve assumersi una responsabilità così dolorosa  per finalizzare al meglio le risorse a disposizione? Chi deve risponderne difronte al corpo sociale? La Soprintendenza? La Regione? Il Comune? Questa serie di domande potrà apparire come una estremizzazione, una provocazione; a ben vedere, silenziosamente, ciò accade tutti i giorni quando, utilizzando le risorse realmente a disposizione, si interviene su alcuni beni e su altri no, adducendo ragioni di rischio di perdita  o criteri di convergenza di interessi collettivi.

E quindi, che fare? Ritengo, insieme a tanti altri che questo tema si sono posti, che sia necessario cambiare ottiche. Una politica di tutela, conservazione e valorizzazione efficace non può che essere questione dell’intera società, è una questione di responsabilità condivisa, che vuol dire ri-immettere il patrimonio nel ciclo economico e nel quotidiano dei cittadini. Solo usando e ri-usando il patrimonio si può sperare di conservarlo, valorizzarlo e trasmetterlo alle nuove generazioni.  E, permettetemi, usare il patrimonio è anche una delle vie maestre per recuperarne il senso e il significato agli occhi dei contemporanei; bisognerà avere anche il coraggio di prendere in considerazione la possibilità che il patrimonio culturale possa essere quello nel quale le comunità si identificano, al di là delle categorie concettuali e culturali alle quali ancora si fa riferimento.

Tutto ciò non è un’operazione semplice: se escludiamo alcuni beni-faro, molto noti e quindi interessanti per investimenti economici a favore del loro mantenimento con conseguente ritorno di immagine per gli investitori, non si vedono grandi file per occuparsi di aree archeologiche, castelli, chiese sconsacrate, masserie. Eppure è proprio il patrimonio diffuso che oggi merita maggiori attenzioni, coltivando e facendo emergere una nuova cultura di “cura dei luoghi” unico vero argine contro il degrado e unica pre-condizione per innescare con intelligenza filiere lunghe che possono produrre valori (sociali ed economici) che conferiscono valore al patrimonio, anche in senso economico, senza comprometterlo ma anzi producendo un beneficio diffuso.
Passiamo così al secondo pilastro.

Sostenibilità: ovvero valorizzare il potenziale del patrimonio culturale nelle strategie di sviluppo locale, anche attraverso il riuso e il turismo culturale.

Come rendere concreto questo enunciato?
Non può non riconoscersi la necessità e il valore dell’adozione da un lato di un approccio integrato nei processi di valorizzazione territoriale, dall’altro, quanto sia importante essere più attenti alle forme che deve assumere il confronto tra gli attori territoriali impegnati nel delineare percorsi di sviluppo locale e quindi di governance partecipativa.
E’ una consapevolezza ormai radicata a livello europeo e riconoscibile anche nelle migliori esperienze italiane che l’integrazione (tra istituzioni, patrimoni, pubblico e privato) rappresenta la strategia vincente per la valorizzazione del patrimonio culturale. Dove manca è difficile valorizzare i patrimoni, dove esiste si ottengono migliori risultati, dove si indebolisce regrediscono anche le buone pratiche.

Nell’approccio integrato raccomandato dall’UE il patrimonio culturale da valorizzare è quello che concorre a definire l’identità di un determinato territorio, nelle sue varie articolazioni: storiche, culturali, naturali, produttive, dei valori immateriali, dei servizi. Il riferimento all’identità chiama immediatamente in causa la dimensione territoriale, vale a dire l’ambito geografico nel quale si manifesta questa identità. All’interno di questo contesto definito, nel quale devono interagire istituzioni pubbliche e private, sistema economico e società civile, dovrà essere definita una strategia di valorizzazione e quindi una serie di azioni e interventi coerenti con la strategia stessa. In Italia prevale ancora un approccio puntuale alla tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici. Sono rari, infatti, i sistemi culturali integrati realmente messi in atto e sono deboli le relazioni tra patrimonio culturale e sistemi economici locali, tra pubblico e privato. Anche in materia di gestione, per molto tempo, e tutt’oggi, l’attenzione si è concentrata sulla gestione del singolo attrattore culturale e meno sulla gestione di sistemi articolati di beni. Il problema strategico è, invece, come garantire l’integrazione tra beni culturali e territorio, tra soggetti pubblici e privati. Servono una visione più ampia del concetto di valorizzazione, processi di progettazione integrata dei quali la gestione deve fare parte integrante per far interagire tra di loro le risorse identitarie dei territori e i soggetti pubblici e privati che vi operano. Questa è la sfida dell’approccio integrato.

In questa logica l’adozione di modelli di governance partecipativa che prevedono il coinvolgimento di istituzioni pubbliche e private, del settore del volontariato, della società civile favorisce a tutti i livelli la condivisione delle politiche e delle responsabilità e la trasparenza nell’uso delle risorse pubbliche, contribuendo  ad incrementare la consapevolezza sui valori del patrimonio culturale quale risorsa condivisa, riducendo in tal modo anche il rischio di abusi e accrescendo i benefici sociali ed economici. Negli ultimi anni si è sempre più affermata una visione dello sviluppo locale e territoriale legata alla fruizione “sostenibile” del territorio da parte di utenti esterni. Da questo l’importanza crescente dei fattori immateriali e della cosiddetta “narrazione” del territorio come fattore attrattivo: senza queste componenti i territori non hanno la capacità di suscitare interesse da parte dei possibili fruitori, anche in considerazione della sfida sempre più difficile nei mercati della cultura e del turismo.

Il turismo appunto: sappiamo quanto il Ministero e in particolar modo in questi ultimi anni il Ministro Franceschini abbiano puntato sullo sviluppo del comparto del turismo culturale: non a caso nel 2016 è stato prodotto il Piano Strategico del Turismo per il quinquennio 2017-2022. Tre sono i principi strategici che lo governano:
sostenibilità, intesa nelle sue diverse accezioni relative ad ambiente, territorio, salvaguardia del patrimonio, sistema socioeconomico, cultura e cittadinanza;
innovazione, per innovare sistematicamente prodotti, processi, tecnologie ed organizzazione dell’attività turistica e modernizzare le modalità di fruizione e il mercato;
accessibilità e permeabilità fisica e culturale: ampliare le possibilità di accesso fisico e culturale alle risorse culturali e ambientali, sia in termini di mobilità sostenibile, di accessibilità dei luoghi di opportunità per i turisti di comprendere  il patrimonio che si sta visitando.

Il Piano prevede poi piani annuali di attuazione  che specificano nel dettaglio azioni e programmi e che comunque si muovono nell’ottica di  stimolare al massimo una governance partecipativa dei processi per favorire soprattutto la scala territoriale. Di tutto ciò stiamo vedendo gli effetti con precise iniziative  messe in atto a scala territoriale:
le Capitali italiane della cultura, che attraverso un approccio nuovo di pianificazione strategica  a trazione culturale  sono in grado di contribuire a colmare i gap infrastrutturali che limitano lo sviluppo delle aree urbane; progetti quali le reti di ciclovie turistiche nazionali, i cammini storici e religiosi, che proprio in questi giorni hanno visto concretizzarsi un’iniziativa decisiva, quella della apertura del portale www.camminiditalia.it, uno strumento per viaggiatori e turisti.
Si tratta della prima mappatura ufficiale dei cammini d’Italia, un contenitore di percorsi e itinerari pensato come una rete di mobilità slow che al momento contiene oltre 40 cammini, ovviamente  implementabile.

Il 2017 è l’anno dei borghi che punta a diffondere la cultura di un’esperienza turistica “slow”, più sostenibile e autentica, allo stesso tempo lontana e complementare rispetto a quella delle località universalmente note. Non dobbiamo dimenticare che tutto ciò deriva anche dalla consapevolezza e dalla presa d’atto di quanto siano cambiati, nel volgere di pochi anni, il tipo di turismo e di turisti.
Il nuovo turista è un tipo di consumatore che diventa ogni giorno più “colto” e sofisticato, reso tale dalla capacità di avvalersi delle nuove tecnologie dell’informazione e da quella competenza che gli deriva dalla frequentazione quotidiana di “oggetti” che l’industria (culturale e non) gli propone. Non dobbiamo dimenticare che i “territori” non competono solo con altri “territori” ma anche con l’insieme degli strumenti in grado di dare forma alle passioni che guidano l’individuo nel suo agire turistico. Per questo non possiamo non rimanere colpiti dalla povertà espressiva con cui molti asset culturali – ancora oggi – si propongono sul mercato turistico.

Coinvolgimento:  sensibilizzare al valore del patrimonio culturale in particolare i giovani.
Per chi conserviamo?

Ecco dunque l’importanza che assume l’educazione al patrimonio, al riconoscere e riconoscersi nelle testimonianze passate che debbono essere traghettate nel futuro.Tralascio qui il tema dei linguaggi, delle modalità di narrazione e di approccio, ma non possiamo sottacere l’importanza che in questo campo riveste l’educazione al patrimonio, da intendersi nel contempo, come educazione alla cittadinanza.
I giovani di oggi vivono in tempi di grandi e molteplici stimoli ma anche di forte crisi degli equilibri politici e sociali europei e nazionali, di messa in discussione dei concetti di identità e appartenenza, di polarizzazione delle posizioni rispetto al tema della diversità culturale fino a forme di intolleranza. Eppure, la cultura sta lì proprio per aiutare a negoziare le diversità, promuovere l’incontro (fra persone, idee, posizioni) e mostrare la complessità delle identità come strutture dinamiche, plasmabili, potenzialmente sempre in trasformazione ma anche estremamente difficili da gestire.
Il patrimonio culturale rappresenta un ambito particolarmente complesso quando si affrontano le tematiche della diversità e dell’integrazione, poiché la nozione stessa di “patrimonio”, in virtù della sua stretta associazione con i concetti di “identità” ed “eredità”, sembra riferirsi a qualcosa che è acquisito per diritto di nascita. In un periodo segnato da una vera e propria ossessione nei confronti dell’identità come fattore di esclusione, di discrimine tra chi “appartiene” e chi “non appartiene”, educare al patrimonio in chiave interculturale apre degli spazi nuovi e impensati di inclusione e cittadinanza, puntando non tanto a colmare presunte lacune culturali, quanto a costruire nuove appartenenze.
Sensibilizzare al valore del patrimonio culturale significa anche altro: attuare modalità di apprendimento flessibili; fare acquisire competenze spendibili; valorizzare le vocazioni personali; collegare la scuola con il mondo del lavoro e la società civile, per consentire la partecipazione attiva di soggetti esterni nei processi formativi; correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio. In questo senso fondamentale è il ruolo della scuola e delle università.

Innovazione: promuovere la ricerca e favorire l’utilizzo dei risultati, incentivare la partecipazione attiva.
“Ecosistema digitale culturale”. La perifrasi non è mia, ma del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo che l’ha usata per la prima volta nel 2015 nel Piano Strategico per la digitalizzazione del Turismo italiano. Mi sembra utile cominciare da qui. Il digitale permea ogni ambito delle nostre esistenze, dagli aspetti sociali a quelli relazionali, passando per la sfera lavorativa. La cultura non può dirsi immune, anzi. La spinta digitale si è espressa qui in modo potente generando riferimenti concettuali quali “intelligenza collettiva”, open source community Il fruitore medio attivo dell’Era Digitale ha sviluppato competenze e consuetudini che lo portano “naturalmente” ad un approccio partecipativo e co-creativo rispetto a ogni tipo di contenuto ed esperienza con cui viene in contatto. Conservare, trasmettere e produrre sapere è, oggi come mai prima, una sfida di coinvolgimento e interazione. In che modo il patrimonio culturale italiano – materiale e immateriale – sta facendo i conti con questa mutazione? Per anni, il settore culturale italiano ha tardato a cogliere il potenziale che deriva dall’innovazione tecnologica. Per questa ragione il nostro paese si muove a doppia velocità: accanto a realtà che hanno compreso e accettato questa sfida, esistono ancora larghe zone di resistenze e di mancanza di progettualità. Ma attenzione, aderire a questa visione significa sviluppare competenze, saper dosare l’uso e indirizzarlo verso progetti che favoriscano realmente la crescita culturale, che sappiano restituirci  il senso di un patrimonio vitale. Troppe volte, nel mondo dell’open source, ancora fatichiamo a condividere  risultati scientifici e a mettere a disposizione dei pubblici dati e materiali che non sono di nostra proprietà ma che appartengono alla collettività.
Dobbiamo pensare alla cultura e al patrimonio culturale come a un driver che attraversa  tanti e svariati settori e, d’altra parte, dobbiamo relazionarci con il mondo della scienza e delle tecnologie  per apportare nel mondo della cultura quei tassi di innovazione che gli consentono di porsi non più come eredità del passato ma ponte per il futuro.