Affreschi inediti a Corciano

di Alessandra Tiroli

Questo saggio ha come oggetto lo studio di due pregevoli testimonianze artistiche pressoché inedite pertinenti alla famiglia dei della Corgna, poste all’interno delle mura di Corciano, a poca distanza dalle ben più celebri residenze di Pieve del Vescovo e di Colle del Cardinale, spettanti allo stesso casato. Naturalmente questo studio è solo un punto di partenza e vuole essere uno stimolo per affrontare l’argomento da molteplici punti di vista: storico, storico artistico, iconologico e letterario, ognuno dei quali racchiude al proprio interno altre sfumature[1].
Corciano è sempre stato indissolubilmente legato alle sorti socio-economiche e politico-culturali dell’Augusta città. Per quanto concerne la stagione figurativa più mirabile del castello del contado perugino, quella del Rinascimento, essa è illustrata da tre celeberrime testimonianze: il Gonfalone di Benedetto Bonfigli (1472), il Torrione di Porta Santa Maria, realizzato su disegno dei maestri lombardi Pietro e Bartolo di Meo (1482) e la Pala dell’Assunta di Pietro Vannucci detto il Perugino (1513).
Il periodo che va dalla fine del primo decennio del XVI secolo al fatidico 1540, il territorio perugino, dal punto di vista artistico traduce, in tono delicato e stanco, il clima sociale e culturale autoctono, dominato da una koiné ancora largamente focalizzata sulla scia artistica del divin pittore e raramente aggiornata alle più moderne tendenze romane e fiorentine. La conseguente fine della creatività artistica locale coincide con la perdita della libertà politica determinata anche dalla damnatio memoriae che, almeno all’inizio, sembra aver colpito le maestranze indigene, sempre più chiuse in un ostinato conservatorismo, bandite dalle commissioni più prestigiose poiché escluse dalle più quotate botteghe sponsorizzate dalla nuova classe mecenatesca filopapale.

  1. L’ABSIDE DELLA CHIESA DI SANTA MARIA DEL SERRAGLIO

La decorazione della cappella della Madonna del Serraglio[2] di Corciano costituisce un elemento di rottura rispetto a quanto sopra detto (FIG.1). A partire dal 1521, la piccola abside si ricopre di figurazioni assolutamente innovative e che a Perugia, grazie alla lungimiranza della committenza priorale che ne aveva recepito la moda “con grande tempestività”[3], sono introdotte solo nel 1531, allorquando a Domenico di Paride Alfani viene commissionata una decorazione nella loggia di fronte alla mensa dei priori “cum diversis picturis, figuris, foglias et grottescis”[4]. Il termine “grottesca”, lessico nella letteratura artistica a partire dal 1540[5], diviene, di lì a poco, emblema di “tenebrose note dell’oscurità e destinate al retaggio pagano e mendace ad esser condannate senza appello”[6].

MARGINALIA QUATTROCENTESCHI CORCIANESI

I motivi decorativi della piccola cappella del Serraglio non hanno nulla a che vedere con le dotte citazioni, datate 1493, poste nei laterali dell’affresco della Mater Salvatoris della chiesetta dell’Ospedale del Borgo di Corciano, assegnato a Ludovico di Angelo di Baldassare, della scuola del più celebre Fiorenzo di Lorenzo[7]. I due fregi con armilustria -tra cui compare anche lo stemma della comunità corcianese- ovvero una serie di armi e di altri oggetti militari che denotano un sapore archeologico in concordanza con le esperienze umanistiche quattrocentesche, si pongono sulla scia del continuum storico che dall’antichità percorre ininterrottamente la linea del tempo. Le panoplie del Borgo, infatti, possono essere inserite nel filone dei marginalia, mai sopito, che continua, senza soluzione di continuità, ad essere presente nell’Arte, popolato di gargoyles, draghi, diavoli, creature orripillanti e irreali che sono il frutto delle revisioni a carattere essenzialmente cristiano degli elementi teriomorfici e metamorfici romani[8]. Quindi, il gusto dell’horror vacui espresso dall’età antica e tarda non si interrompe, ma da essenzialmente ludico ed edonistico[9], si adatta alla gerarchia morale, anche grazie all’influenza araba e folclorica del nord Europa, dove si assiste alla rivisitazione di modelli classici che generano esseri policefali, creature oscene e ambigue (di chiara simbologia apotropaica) che, per le forti tonalità assunte (molto più forti di quelle già neroniane), diventano allusive al mondo del maligno e, di rimando, strettamente pedagogiche e altamente moraleggianti. L’abnorme, il mostruoso, il grottesco (naturalmente non alludente alle grotte neroniane ancora non scoperte) diviene sinonimo della mancanza di Dio e foriero di un messaggio apocalittico ed escatologico. I mosaici di Ravenna, le decorazioni di capitelli, cornici, miniature, Giotto stesso -anche ad Assisi- tengono unita questa linea del tempo che si accentua in età umanistica quando il repertorio dei marginalia medievali viene del tutto recuperato, mantenendone lo spirito, ma mutandone le forme. Come afferma Cennino Cennini: “al pittore è data libertà di poter comporre una figura mezzo uomo, mezzo cavallo, sì come gli piace, secondo sua fantasia”[10].
La scoperta della Domus Aurea, forse già nel 1479, non fa che arricchire un già nutrito repertorio destinato però, di lì a poco, a perdere il carattere di mero ornamento[11] e divenire parte integrante della decorazione.  Le Antiquarie prospettive, redatte tra il 1499 e il 1500 da un “prospettivo milanese dipintore”, da taluni identificato (in base alle opere qui descritte) con Bramante, ben evidenziano l’entusiasmo che deriva da questo ritrovamento[12].
Il Cinquecento segna una diffusione inarrestabile delle grottesche e, dietro l’influenza dello specialista Giovanni da Udine, anche Raffaello ne rimane affascinato, creando – sulla scorta della rilettura di Vitruvio- un’impostazione più ordinata e classicista, abolendo del tutto le contaminazioni medievali. La morte del genio urbiante e la conseguente dispersione della sua bottega segnano la diffusione capillare di questo gusto che talvolta assume caratteri cristiani, come per esempio nella decorazione di Trinità dei Monti di Perin del Vaga, datata pre 1525, dove compaiono il velo della Veronica e il menorah ebraico.

LA DECORAZIONE DELL’ABSIDE

Come sopra detto, le grottesche dei sei costoloni della volta della chiesa del Serraglio recano la data 1521[13]. Le nervature, uguali a due due a partire da quelle centrali, si ripetono specularmente, originandosi dal colmo in cui è il bassorilievo dipinto dell’Agnus Dei. La datazione non è riferibile ai dipinti della calotta, eseguiti in una fase più tarda[14].
Satiri fitomorfici, grilli, uccelli, festoni, cornucopie, tempietti, esedre, figure teriomorfe, maschere, mandylions sono disegnati in maniera vivace, su un fondo bianco che fa trasparire con brio ogni dettaglio degli intrecci. Trionfi di rhopographie mostrano figure del paradosso create con contrasti dinamici secondo cui le silhouette sostengono o sono sostenute da strutture e/o creature sproporzionate. Lo chassis sfiorisce in favore di trapassi materici fluidi. L’autore dimostra di aver compreso la grammatica delle grottesche che prevede sia l’adesione all’antico che una moderna rielaborazione. È chiaro anche l’horror vacui[15] impostato però con ordine e simmetria. All’interno di questo universo popolato di animali, vegetali ed ibridi, si svelano chiare allusioni alla natura religiosa del luogo, ovvero la spiga di grano e il grappolo d’uva. Nelle due fasce esterne, quasi invisibili dal basso, sono altrettante pinakes con raffigurate mura cittadine con porte e torri. Completano la decorazione due stemmi gentilizi, uno simile a quello parlante dei della Corgna[16] -nella versione con al monte di tre cime di verde, sormontato dall’albero di corgnolo dello stesso, mancante però del fruttifero di rosso e del 2° di nero, a tre bande d’oro, con la fascia d’azzurro attraversante[17] – ma anche a quello dei Brunelli che possedevano beni nel castello fin dal 1484 e i cui membri ricoprirono, forse più di una volta, il ruolo di Capitano del Contado a Corciano[18]. L’emblema di sinistra rappresenta, su fondo naturalistico a cielo sfumato, un albero a chioma verde che poggia su un terreno roccioso e sullo sfondo un monte molto somigliante a Monte Acuto, proprio nella visione che se ne ha dall’area della chiesa del Serraglio.
Tornando al punto di partenza, ovvero alla datazione impressa nella decorazione, questa si rivela di grande interesse considerando il carattere estremamente innovativo del prodotto. Il 1521 è l’anno seguente la morte di Raffaello e lo scioglimento della bottega che, fino poco tempo prima, aveva lavorato alla Farnesina (1517) e alle Logge (1519).
Il gancio tra l’Umbria/Perugia, a quelle date ancora Perugino dipendenti, e Roma è certamente Raffaellino del Colle che, già nel 1517, è attestato nell’Urbe alla bottega di Sanzio, per approdare, poi, a Sansepolcro dove il “valente frescante” apre una bottega, vera fucina di artisti[19]. Anche Perugia subisce in questo modo una piccola scossa grazie ai contatti tra Leonardo Cungi e Orazio Alfani e il più anziano Giovanbattista Caporali.
Il maestro delle grottesche di Corciano va ricercato all’interno di questo clima culturale, tenendo sempre presente la data 1521 entro la quale è possibile collocare l’attività di pochissimi dei pittori citati in nota e considerando che, di alcuni di essi, le notizie biografiche sono ancora veramente scarne. Nessuna ipotesi può essere esclusa a partire da Pompeo di Piergentile Cocchi che parte della storiografia vorrebbe corcianese[20].

  1. COMMITTENZE CORGNESCHE A CORCIANO

Stando alle memorie scritte nel 1892 da don Giacomo Nucci[21], la famiglia dei della Corgna, proprietaria di molti fabbricati a Corciano, fu, per un certo periodo di tempo, anche “feudataria” del poderoso castello. Erano di loro pertinenza: l’attuale canonica con la torre, oggi campanile, resti della fortezza di famiglia; l’odierna scuola media[22] e, lungo corso cardinale Rotelli, l’antica residenza civica, il vicino Palazzo dei Priori, la casa natale del pittore corcianese Guerriero Giappesi[23] e il presente Palazzo comunale[24].

IL PALAZZOTTO DI FULVIO DELLA CORGNA

Uno degli immobili citati dal Nucci, ubicato lungo la via intitolata alla nobile famiglia, nei pressi nell’abside della chiesa parrocchiale, pochi anni fa, ha rivelato il nome dei suoi antichi proprietari. Infatti, nello spazio di risulta di una contro soffittatura realizzata in epoca imprecisata, sono stati scoperti resti frammentari di una pregevole decorazione. Da quanto si evince si doveva trattare della classica decorazione parietale con figurazioni nella parte sommitale. L’immagine di maggior rilievo è quella di un’affascinante figura muliebre, acconciata in maniera elegante e raffinata (FIG.2). Per il resto è possibile scorgere resti di cornici e decorazioni fitoformi e zooformi. Di grande interesse è, però, ciò che resta di un’insegna ecclesiastica, evidente in quanto lo scudo gentilizio è sormontato dal galero cardinalizio, riferibile indubbiamente a Fulvio della Corgna poiché congruente con quello più volte affrescato a Pieve del Vescovo e Colle del Cardinale (FIG.3). Degna di nota è, inoltre, la presenza, nella facciata dello stesso edificio, di uno stemma entro scudo a testa di cavallo con l’emblema dei de Medici (FIG.4). L’amicizia tra i due casati, sancita da stretti accordi, è esibita dai della Corgna come chiaro manifesto di una potente alleanza[25], segno evidente di potere assoluto e alto prestigio sociale da mostrare sia come monito che come vanto[26].

PALAZZO DELLA CORGNA COLONNA

L’attuale palazzo municipale, sicuramente appartenuto ai della Corgna e costruito integrando parte di un isolato medievale sorto nei pressi delle mura interne del castello corcianese[27], dal punto di vista architettonico, se paragonato alle grandi dimore della famiglia, risulta essere un’abitazione assai più modesta. La scarna letteratura che lo riguarda[28] ne riferisce la paternità all’Alessi e al Vignola, proponendo, naturalmente, gli architetti attivi localmente per il nobile casato.
La facciata principale è costituita da una struttura centrale rientrante su cui poggiano due avancorpi che gli conferiscono un aspetto imponente, alla stregua delle torri angolari di un castello medievale. Il prospetto posteriore, che raggiunge un’altezza maggiore, segue invece l’andamento delle antiche mura corcianesi sulle quali si erge. La semplicità dell’edificio, unita alla mancanza di elementi di rilievo, fa pensare che non vi fu un vero e proprio progetto, quanto piuttosto un’idea programmatica, magari teorizzata dallo stesso Ascanio che non era estraneo a questo tipo di proponimenti. Come ogni abitazione signorile si articolava su tre piani, tutti sapientemente collegati tra di loro dall’interno e dall’esterno, colmando nella sua parte anteriore, un buon dislivello collinare. Nell’ala a ridosso delle mura erano sotterranei, depositi e scuderie. Al di sopra si ergeva il piano nobile o di rappresentanza e, ancora più in alto, l’appartamento privato. L’edificio, che è stato completamente ristrutturato negli anni Ottanta del XX secolo, aveva già subito dei riadattamenti nel momento in cui passò da residenza privata a casa municipale[29].
Nel salone d’onore, odierna sala del consiglio, è affrescato un ciclo di grande rilevanza, pressoché inedito.  Al centro della parete di fondo, campeggia uno stemma, sorretto nobilmente da due putti ignudi che aprono teatralmente l’elegante sipario che l’inquadra, il quale rivela i natali degli antichi proprietari. Si tratta di un emblema bipartito pertinente al ramo familiare dei della Corgna Colonna[30] e, quindi, quello originatosi dal matrimonio tra Diomede della Corgna[31] e Porzia Colonna[32] (FIG.5).

IL BUSTO MARMOREO DI ASCANIO

In questa residenza, fino a pochi anni fa, era conservato, scampando a tutti i proprietari che si sono succeduti, ma attualmente irreperibile, un busto marmoreo di Ascanio, del tutto simile a quello eseguito da Vincenzo Danti per il sepolcro del condottiero in San Francesco al Prato. Anche nel salone di rappresentanza di Palazzo della Corgna a Castiglione del Lago si trovano due busti di Ascanio in gesso patinato, entrambi conseguenti ad un unico prototipo, realizzati a calco tra il XVII e il XIX secolo e che già la Donati Guerrieri faceva derivare dall’originale funerario perugino[33]. Se l’epoca tarda dei gessi è facilmente spiegabile per i reperti castiglionesi, niente giustificherebbe date così avanzate per Corciano, poiché il palazzo, già nel XVII secolo, era in mano ad altre famiglie. Presumibilmente, visto che l’esemplare corcianese era di marmo, si può ipotizzarne la contemporaneità con quello dantiano, dal quale, evidentemente, non si discosta né per la forma né per il contenuto, fiero nell’ostentare l’occhio mutilo come medaglia al valore[34] (FIG.6).

IL SALONE D’ONORE

L’attuale sala del consiglio si presenta come una scatola quadrangolare, aperta su tutti i lati da porte e/o finestre. Le pitture si snodano nel soffitto a travatura lignea e nella parte alta delle pareti, alla maniera dei fregi antichi[35],  mentre, nella fascia sottostante, come si evince da alcuni frammenti, era un ornamento a finti parati. La ricchezza del prodotto finale doveva coinvolgere e stupire il visitatore esprimendo i valori celebrativi ed encomiastici dei committenti elevando la dimora corcianese a luogo pubblico e di rappresentanza.
Il complesso impianto decorativo incentrato sulle grottesche scandisce lo spazio e inquadra l’apparato figurativo a seconda del soggetto quivi raffigurato, divenendo vicendevolmente contenitore e contenuto. Vedute, araldica, fabule e altre scene poste in cornici differenti a loro volta inquadrate da cariatidi, putti, mascheroni ed altro, creano almeno quattro chiari piani di lettura che magnificano i committenti divenendone esplicazione dello status quo. Il visitatore che entra nella sala è immediatamente colpito dalla multiformità del sistema decorativo. Lo schema, pur se simmetrico, ma oltremodo articolato delle pareti, sulle quali incombe anche l’intricato apparato ornamentale del soffitto, crea un horror vacui visivo in cui le narrazioni, iconograficamente complesse, sono intessute. Le scene, in genere, sono inserite nel ciclo specularmente, in maniera simmetrica ovvero episodi con gli stessi protagonisti quasi mai sono vicini tra di loro, ma spesso sono collocati l’uno di fronte all’altro. Purtroppo, le mediocri condizioni di conservazione e i pesanti interventi di restauro[36] non permettono un’agevole lettura delle immagini, in special modo di quella delle fabule e hanno reso assai complesso lo svelamento iconologico dei soggetti[37].

LEGENDA ESEGETICA DELLA TAVOLA
(redazione grafica a cura di Elena Donà)

I CAMPATA (cariatidi frontali)

  • PARETE D’INGRESSO (FIG. 11)
    1) Ratto d’Europa
    2) Scena militare (assalto ad una fortificazione)
    3) Ratto di Ganimede (?)
  • PARETE DI SINISTRA
    4) Scena connessa alla fabula di Tereo, Procne, Filomela e Iti (Tereo fa violenza su Procne?) (FIG. 22)
    5) Stemma gentilizio: famiglia Doni? (FIG. 21)

II CAMPATA (cariatidi frontali)

6) Scena connessa alla fabula di Tereo, Procne, Filomela e Iti (Pandione consegna Filomela a Tereo; Partenza di Filomela e Tereo) (FIG. 25)
7) Personificazione del Tempo: Giovinezza

III CAMPATA (cariatidi di profilo)

8) Pinax con figura danzante
9) Paesaggio; Personificazione della Fama
10) Pinax con figura danzante
11) Stemma gentilizio: famiglia Coppoli (FIG. 19)

IV CAMPATA (cariatidi di profilo)

12) Fabula: Perseo uccide la Gorgone e dal suo sangue nasce Pegaso (FIG. 29)
13) Personificazione del tempo: Giovinezza

V CAMPATA (cariatidi di profilo)

14) Fabula: La storia di Filemone e Bauci (FIG. 35)
15) Stemma gentilizio: famiglia Massini/Ansidei (FIG. 16)

VI CAMPATA (cariatidi di profilo)

16) Pinax con figura danzante
17) Paesaggio; Personificazione della Fama
18) Pinax con figura danzante

  • PARETE DI FONDO
    19) Personificazione di un’Arte: Astronomia (FIG. 5)
    20) Fabula: La vicenda di Peleo e Teti (FIG. 37)
    21) Personificazione di un’Arte: Poesia (FIG. 8)
    22) Stemma gentilizio: famiglia della Corgna/ Colonna (FIG. 8)
    23) Personificazione di una Virtù: Fortezza (FIG. 8)
    24) Fabule: La vicenda di Esaco; Priamo e Cilla; Persefone e Mercurio psicopompo (?); Ifigenia salvata da Diana; Diana (FIG. 39)
    25) Personificazione di un’Arte: Musica (FIG. 5)
  • PARETE DI DESTRA
    26) Pinax con figura danzante
    27) Paesaggio; Personificazione della Fama
    28) Stemma gentilizio: famiglia dei degli Oddi (FIG. 17)
    29) Pinax con figura danzante

V CAMPATA (cariatidi di profilo)

30) Acheloo ospita Teseo e i suoi compagni; Il racconto di Acheloo (FIG. 32)
31) Personificazione del Tempo: Vecchiaia (FIG. 14)

IV CAMPATA (cariatidi di profilo)

32) Fabula: L’eroe libera la fanciulla che sta per essere divorata da un mostro (FIG. 28)
33) Stemma gentilizio: famiglia della Corgna (FIG. 18)

III CAMPATA (cariatidi di profilo)

34) Pinax con figura danzante
35) Paesaggio; Personificazione della Fama (FIG. 35)
36) Pinax con figura danzante
37) Personificazione del Tempo: Vecchiaia

II CAMPATA (cariatidi di profilo)

38) Scena connessa alla fabula di Tereo, Procne, Filomela e Iti (Procne, Filomela, Tereo ed Iti sono trasformati in uccelli?) (FIG. 23)

I CAMPATA (cariatidi di profilo)

39) Stemma gentilizio: famiglia Doni (FIG. 20)
40) Scena connessa alla fabula di Tereo, Procne, Filomela e Iti: Procne prende Iti per ucciderlo; Uccisione di Iti; Filomela presenta la testa di Iti a Tereo infuriato; Tereo vuole uccidere Procne e Filomela (FIG. 24).


LE PARETI

Nella parete di fondo, ai lati dello stemma della Corgna Colonna, la Fortezza e la Poesia (su fondo blu), proprio per la loro posizione, assumono un ruolo di prim’ordine (FIG.8). Proseguendo, specularmente, vi sono due fabule e, oltre, l’Astronomia e la Musica (su fondo rosso)[38]. Due cornici antropomorfe monocrome delimitano la parete.
Anche le decorazioni delle due pareti longitudinali si sviluppano in maniera simmetrica tra di loro (FIGG.9 – 10).   Qui, intessuti in un intricato complesso ornamentale, vi sono: finti pinakes figurati; paesaggi idilliaci[39] sormontati da faccine[40]; personificazioni del tempo[41]; putti che giocano su tralci di frutti[42], stemmi[43] e racconti.
Nella parete d’ingresso, è, al centro, entro un complesso motivo ornamentale assolutamente unico rispetto alle restanti cornici, una scena militare[44], poco più che leggibile e, ai lati, il Ratto d’Europa -su toro bianco- e a destra, probabilmente, il Ratto di Ganimede[45] (FIG.11).

IL SOFFITTO

Anche le facce delle cinque travi mostrano decori di svariate tipologie[46]. In genere, quelli paralleli al soffitto presentano semplici ornamentazioni a girali vegetali e geometrici; al centro e ai lati di questi si aprono delle specchiature multiformi che ospitavano figurazioni in alcuni luoghi non più percepibili, ma che altrove mostrano stelle a rilievo (FIG.12). Via via che ci si avvicina all’ingresso, le decorazioni si fanno più complesse, fino ad assumere la “dignità” di grottesche vere e proprie nella prima trave. Le porzioni laterali dei travetti, fruibili più agevolmente, sono molto articolate e presentano simboli dai profondi significati iconologici; questi divengono sempre più complicati in prossimità della parete di fondo, quasi si percorresse una iniziazione verso alte sfere di conoscenze filosofiche e dottrinali man mano che ci si addentra nella sala. Ad esempio, il lato opposto all’ingresso della trave presso la parete di fondo, mostra, accompagnati da un personaggio a destra e uno a sinistra, due fuochi lustrali (alle estremità), la croce con serpente (kuthuma di Erks) che si collega a Mercurio[47]; un labirinto (al centro) che, per la forma e per la presenza del sole, ricorda la coenatio rotunda di Nerone[48]; un’ara con un vitello bianco e un oracolo, espressione dell’intimo rapporto col divino[49]. Chiara appare, in tale maniera, la tematica di questa trave dedicata alle consacrazioni e al soprannaturale. Nell’altra faccia del medesimo supporto sono, al centro, uno stemma oggi illeggibile, un uomo di fronte al liocorno, una barca trainata da cavalli, un carro condotto da draghi o mostri marini e una donna che corre verso un cervo. Il primo cocchio porta alla mente la personificazione della terra, ovvero Cerere, dea della Fertilità e della Fecondità naturale, che fa pendant con l’altro che allude invece al regno marino. Procedendo verso l’ingresso, la sequenza ornamentale delle travi si fa sempre più decorativa. Nella seconda verso il fondo, sul lato rivolto verso l’entrata, si distingue, per importanza, il mito di Prometeo (o anche Orione o Tizio)[50]. Chimere (?), tori affrontati, satiri danzanti e musicanti, volatili, mostri marini, Naiadi (care a Perseo), Nereidi e grottesche, animano le travature in una sequenza che sembra rispettare un processo di apprendimento a gradi, come detto, via via più complesso procedendo verso il fondo. Tutti i protagonisti qui elencati sono stati sottratti dalla propria cornice narrativa, ma non resi autonomi dal copione letterario illustrato in accordo simbiotico con la restante figurazione del salone.

L’IMPIANTO NARRATIVO
ANALISI ED ESEGESI ICONOGRAFICA DELLE FABULE CORCIANESI

Come detto, il precario stato di conservazione in cui versa la sala che, in alcuni punti, mostra importanti interventi successivi, ha reso enigmatica la lettura dello schema compositivo ed è stato, quindi, molto complesso proporre una spiegazione definitiva sul piano iconografico ed iconologico, anche alla luce della molteplicità delle fonti iconografiche e letterarie a cui i committenti sembrano aver fatto riferimento.
Il salone doveva essere il biglietto da visita della famiglia, cioè l’immagine che voleva dare di se stessa: le amicizie, le alleanze, facilmente individuabili negli stemmi, e la profonda cultura che l’animava. Tutto ciò poteva essere recepito su più livelli. Lo sfarzo, il lusso e anche le coalizioni erano intuibili da tutti, colti e illetterati. Il significato più profondo era accessibile a pochi.
Il fatto che, come già accennato, questa non fosse una camera privata ma una sala di rappresentanza e, quindi, la caratterizzazione si proponesse in maniera molto decisa, come sosteneva Antonio di Pietro Averlino detto il Filarete (1400 circa –1469): “è cosa decente che le pitture che in alcun luogo si dipingono abbiano conformità e proportione con le attioni che in quei luoghi si sogliono esercitare”. Il maestro, anche teorico dell’architettura, raccontava che tra i soggetti mitologici più adatti per i palazzi pubblici debbano trovar posto proprio i miti di Perseo e Medusa e quello di Prometeo, benefattore dell’umanità e visto, fin dall’epoca di Tertulliano, come l’artefice della creazione e nuovo Adamo. Secondo Leon Battista Alberti (1404 –1472), “oltre alla convenienza non deve venir meno nemmeno il fine morale e se nelle ville regna la festivitas nei palazzi domina la severitas: nelle decorazioni pubbliche prevalgono soggetti storici, morali ed esemplari, adatti ai negotia nel pieno rispetto della teoria del decorum” [51]. Il palazzo e la sua decorazione sono, quindi, espressione della magnificentia del signore e questa è una tra le virtù che più lo caratterizzano.
Come si avrà modi di dire il contenuto retorico degli affreschi rinvia continuamente alle fabule atte ad illustrare i caratteri e le prerogative dei mecenati. Non c’è solo narrazione didascalica ma trasfigurazione allegorica dei contenuti. Gli esseri superiori che personificano i signori possono anche trasgredire alle regole, ma poi continuano ad imporsi con la propria potenza, anche divina.
L’assenza assoluta di epigrammi, cartigli e ogni sorta di visibile parlare fa supporre che le pitture siano state concepite come macchine per creare orazioni, per essere parafrasate in una sorta di encomio per syncresis, in cui il committente si compara con l’eroe del passato; non per pedanteria didattico-didascalica, ma in considerazione dei destinatari ai quali era rivolta la spiegazione, si proponeva un’adeguata trasfigurazione allegorica dei contenuti [52].

LE FONTI

I signori, per dar corpo al loro pensiero, si avvalgono delle risorse e delle conoscenze a loro disposizione in quel momento, come le fonti classiche, in special modo quelle diffuse a stampa, e la letteratura trecentesca, ancora di gran moda. Le fonti più amate nel Rinascimento sono le Metamorfosi di Ovidio[53], molto usate nelle dimore corgnesche[54], i Fasti, l’Asino d’oro e le Metamorfosi di Apuleio[55]. Accanto ad esse, pubblicazioni iconografiche e iconologiche proprie, come per esempio Le imagini colla sposizione degli dei delli antichi[56],  iniziano ad esser usate poiché in grado di mettere il mito a servizio dell’artista. Inoltre, già da qualche decennio, la letteratura cavalleresca stava vivendo una nuova giovinezza grazie a Matteo Maria Boiardo e, soprattutto, a Ludovico Ariosto che, con l’Orlando Furioso[57], va, prima, ad affiancarsi alle antiche raffigurazioni mitologiche, poi le contamina e, infine, le soppianta del tutto. A proposito di sovrapposizioni c’è da ricordare (già citato in nota) il testo a stampa di Nicolò degli Agostini, riscritto secondo lo spirito cavalleresco contemporaneo e, particolarmente, quello di Giovanni Andrea dell’Anguillara che, nel 1561, aveva già edito i quindici libri delle metamorfosi, ampliandoli “alla maniera dell’Ariosto”[58].
Lo studioso Bodo Guthmüller ha messo in luce il ruolo fondamentale che i volgarizzamenti delle fabulae ovidiane hanno rivestito nella trasmissione, alla poesia e all’arte del Cinquecento, dei miti antichi. La loro importanza per la storia culturale risiede anche nel fatto che essi non si pongono mai come mediazione passiva della fonte, ma spesso testimoniano la necessità sentita dalla cultura di arrivo di adattare alle proprie esigenze il significato delle saghe[59].

AMMONIMENTI E REGOLE
1°: L’UOMO NON DEVE FARSI GUIDARE DALLE PASSIONI

Osservando l’evidente differenziazione tra i riquadri che ospitano le quattro fabule delle prime due campate e le sei restanti, si potrebbe pronunciare l’assioma che a cornice uguale corrisponda una medesima narrazione. Le prime, infatti, per il particolare decoro a carapaci policromi esterni e, soprattutto, a cartigli e volute interni, sembrerebbero costituire un corpo a sé stante rispetto alla rimanente raffigurazione[60], anche perché di dimensioni inferiori alle altre. Ugualmente, le cariatidi che le inquadrano sono frontali e non di profilo[61].
La prima scena della parete di sinistra mostra, in primo piano, un pavimento piastrellato sviluppato secondo una grammatica rinascimentale, in secondo piano una tenda rossa, in parte raccolta con un grosso nodo, che si imposta su uno spazio claustrale aperto all’esterno di cui si vede una colonna. A destra della grande lacuna che divide in due la scena è un’abitazione che però risulta dipinta su una più tarda integrazione cementizia[62] (FIG.22). Anche per la scena della seconda campata, posta diagonalmente rispetto alla precedente, che mostra un paesaggio dominato da un albero (a destra) e forse da una fortificazione (a sinistra)[63], ridotta ad una specie di larva, è impossibile fare ipotesi certe (FIG.23).
Le vicende del primo episodio della parete destra sono ambientate all’esterno, nei pressi di uno spazio urbano, una sorta di agorà, che da manca si apre su uno sfondo collinare e prosegue poi con due costruzioni (FIG.24). Dallo spigolo della prima nel senso della lettura, una giovane vestita con una morbida tunica gialla, ricercata sopra veste verde e con una spada impugnata con la mano sinistra, sta portando un bambino, un po’ reticente, all’interno della scena. Alle sue spalle è un’altra donna abbigliata con tunica azzurra e sopra veste rossa.  Una discreta lacuna interessa la parte centrale del registro inferiore della pittura in senso verticale. Prima di questa si scorge quanto resta dell’immagine di un bambino, probabilmente inginocchiato, raffigurato con le braccia in alto rivolte verso la donna con veste rosso/celeste. Oltre l’interruzione sono di nuovo le due donne; quella in abito verde/giallo di profilo[64], qui con diadema (?), alza le braccia, offrendo qualcosa (assolutamente illeggibile) che tiene tra le mani ad un uomo coronato, che sta uscendo da un padiglione nella parte opposta della scena, con il braccio sinistro alzato, come se brandisse un’arma che però non è più visibile. Alle spalle della donna è l’altra, qui, forse, cum capite velato[65], sullo sfondo di una quinta marrone che, per come è raffigurata, sembra poggiarle sulla spalla e sul lato sinistro del volto[66]. Davanti all’uomo è un arredo rotondo, bianco che poggia su un piede a calice marrone[67].
Il secondo racconto della parete di sinistra, soprattutto nella parte della quinta scenica presenta delle abrasioni superficiali che inficiano la corretta lettura delle immagini e delle azioni. È bipartito sincronicamente in altrettanti episodi; la parte destra, ambientata sulle rive ventose di uno specchio d’acqua, mostra un dignitario con copricapo blu tra un coronato, che per le vesti che indossa è da identificarsi con il personaggio della scena precedente, e una fanciulla con l’avambraccio destro piegato sul petto e l’altra mano, forse, unita a quella del primo, nell’atto, di un probabile commiato. Nella porzione a manca compare lo stesso coronato a bordo di una nave con la vela quadrata gonfiata dal vento che sta aiutando la medesima fanciulla a salire. Nello sfondo sembra di poter scorgere delle tende e/o delle costruzioni. Le vesti della fanciulla rosso/celesti sono simili a quelle di una delle figure muliebri ritratte nella vicenda precedente[68](FIG.25).
L’attenta analisi di ogni più piccolo particolare, l’esegesi delle fonti scritte e il raffronto con iconografie disponibili ha portato allo svelamento dei quattro episodi sopra descritti[69]. Nelle fabule corcianesi è raffigurato il mito di Tereo, Procne, Filomela e Iti narrato dando voce ad una summa di versioni. Secondo Ovidio[70], l’ateniese Pandione, padre di Procne e Filomela, poiché era scoppiata una guerra, chiama in aiuto il trace Tereo, figlio di Ares, che risulta determinante al fine della vittoria finale. Pandione decide così di dargli in sposa la figlia Procne e dalla loro unione nasce Iti. Dopo un po’ di tempo Procne convince il marito a recarsi ad Atene per riportarle in visita l’adorata sorella Filomela. Ritornato in patria, Tereo stupra la fanciulla, le mozza la lingua perché non possa parlare e la rinchiude in un luogo isolato. Ma Procne, venuta a conoscenza di tutto tramite una tela tessuta dalla sorella, la libera e, con la sua complicità, si vendica di Tereo facendogli mangiare le carni del figlioletto Iti[71]. Rincorse dall’infuriato Tereo per essere uccise, Procne e Filomela vengono trasformate dagli dei rispettivamente in rondine e in usignolo, mentre il re viene mutato in upupa, e Iti in fagiano[72].
Nelle scene corcianesi[73] della seconda campata sono individuabili nella parete di sinistra, distinta in due momenti narrativi, la consegna di Filomela a Tereo da parte di Pandione e la partenza di Filomela e Tereo; in quella di destra destra, ripartita in più sequenze dando voce ad un forte climax narrativo, Procne che afferra Iti per ucciderlo con la spada sguainata; Iti che si dispera pregando Filomela di non esser sacrificato; Procne che rivela a Tereo, mostrandogli la testa recisa di Iti, che si è appena cibato di suo figlio; Tereo che brandisce l’arma per ammazzare le due donne[74].
Notevole è la vicinanza di questa narrazione con una tavola pubblicata da Bernard Salomon nel 1557[75] il cui confronto è stato importante anche ai fini della corretta interpretazione di alcuni elementi presenti nella scena corcianese che, per la cattiva condizione conservativa, rischiava di esser mal interpretata[76] (FIG.26). La scena è quasi identica se non per il fatto che è rappresentata a specchio, ovvero destra per sinistra e per la narratio per syncresis scandita in due momenti anziché tre. L’ambientazione, la gestualità, gli attributi dei vari personaggi[77] sono gli stessi, compreso il tavolo rotondo apparecchiato sul quale è la mensa imbandita con i resti del figlioletto[78].

2°: INTELLETTO, GIUSTIZIA E CORAGGIO

Nella quarta campata del salone, la fabula di destra raffigura un personaggio con elmo alato, su un cavallo anch’esso alato, munito di lancia, che va a liberare una fanciulla, nuda, legata ad uno scoglio, sulla quale si sta avventando un mostro marino (FIG.28). In quella posta specularmente ad essa (FIG.29) è lo stesso giovane (evidente per le caratterizzazioni che lo contraddistinguono) che solleva, con la mano sinistra, una testa irsuta di capelli serpentiformi appena recisa da un corpo umano (e non di cavallo- secondo la versione più tarda che umanizza tale demone -) disteso a terra; accanto è raffigurato un cavallo alato. Sulla destra è rappresentato il profilo di una fortificazione[79]. È chiara l’identificazione della prima del mito della nascita di Pegaso[80] dal sangue della Gorgone Medusa, uccisa da Perseo[81]. Stando alla mitografia classica, parrebbe evidente anche l’individuazione della vicenda posta a fronte di questa, con l’episodio di Perseo che libera Andromeda che stava per esser divorata dal mostro Ketos. Ma, in realtà, l’iconografia classica, parzialmente trasposta anche nelle pitture del Quattro e primo Cinquecento, come per esempio quella affrescata a Castiglione del Lago[82], solitamente vede Perseo munito dell’elmo di Ade, in volo grazie ai talari, calzari alati donatigli da Mercurio, mentre imbraccia una spada ricurva, brandisce il vultus saxificos della Gorgone e reca lo scudo riflettente donatogli da Atena.
Tali elementi non combaciano con quelli dipinti nella scena corcianese per la quale allora si potrebbe ipotizzare, vista la presenza indubitabile di Pegaso, di identificare il personaggio maschile con Bellerofonte nell’atto di uccidere la chimera, episodio che, però, non avviene mentre l’eroe libera una fanciulla[83]. Anche altri particolari, come ad esempio l’assenza dello scudo e della testa della Gorgone – dipinto di sovente in questa tipologia di soggetto – non consentirebbero di riconoscervi in toto il mito di Perseo[84].
La chiave di lettura è, quindi, un’altra, di grande modernità, che deriva da una serie di contaminazioni di fonti che mutano a piacimento le fabule originarie. L’iconografia mostra l’avvenuta sovrapposizione di diversi motivi e la loro fusione e rielaborazione in un ibrido creato appositamente per il committente che rende ragione a più personaggi. La letteratura cinquecentesca viene in aiuto per districare la complessa matassa, ovverosia le Metamorfosi di Ovidio rivisitate dall’Anguillara sulla base del canto X dell’Orlando Furioso. Naturalmente vien subito alla mente la vicenda che vede protagonista Ruggiero che libera Angelica in un topos del tutto simile a quello di Perseo ed Andromeda. Nell’episodio ariostesco Ruggiero cavalca l’ippogrifo, ma in alcune figurazioni quest’animale fantastico è sostituito da un cavallo alato[85] (FIG.31). Appare così evidente che il cavaliere di Corciano sia una sorta di fusione tra Perseo e Ruggiero[86]: il mito classico viene manipolato e adattato alla modernità, come proposto dall’Anguillara[87].
Ai due miti sembra esser parente anche l’episodio di San Giorgio e il drago o addirittura quello di San Michele che sconfigge il demonio a gargolla, per il fatto che il mostro marino corcianese, più che un’orca, pare, appunto, un drago, in quanto munito di zampe. La pittura è, quindi, consona all’affresco di Perin del Vaga a Castel Sant’Angelo dove Medusa diviene un drago per assonanza con il luogo in cui è stato dipinto, intitolato a san Michele; non si dimentichi che proprio quest’arcangelo è il patrono di Corciano.
Come già detto per la fabula di Tereo, Procne, Filomela e Iti, appare, quindi, evidente che lo svelamento delle storie corcianesi non possa avvenire considerando un’unica fonte.

3°: LA SACRALITÁ DELL’OSPITE

Avanzando verso la parete di fondo, anche per le due scene che seguono, raffigurate specularmente, vista la cornice identica alle precedenti, in prima battuta era stato ipotizzato un legame con le vicende appena descritte.
La pittura posta nella parete di destra mostra, a manca, alcuni personaggi entro una grotta; al centro della scena è Nettuno, chiaramente identificabile, che, sulla quadriga guidata da due cavalli (o ippocampi) neri e due rossi disposti in maniera alternata, solca le acque dove sono immersi due personaggi nudi e abbracciati. A destra un uomo sta gettando una donna riconoscibile per gli evidenti capelli lunghi, dalla cima di un promontorio (FIG.32). La fabula a fronte mostra, a sinistra, due individui con vesti sontuose, seduti ad una mensa imbandita sotto una povera capanna con tetto di paglia, alla presenza di due anziani in abiti popolari: l’uomo sta recando un catino[88] e la donna sta inseguendo un’oca. In primo piano, a destra, è un grande albero con due rami fronduti che si originano da un unico tronco (FIG.33).
Nessuna delle due scene è da collegarsi alle vicende di Perseo[89]: nella prima è dipinto un episodio del quale è reso protagonista Teseo, eroe attico, artefice del sinecismo; della seconda si tratterà più avanti.
Secondo quanto raccontato sia da Ovidio che dall’Anguillara[90], dopo aver partecipato alla cattura del cinghiale calidonio, Teseo riprende il cammino insieme ai suoi compagni Piritoo e Lelege finché si imbatte nel fiume Acheloo, gonfio d’acqua, che li invita ad attendere che passi la piena nella sua grotta. Lì, vengono fatti accomodare e, mentre alcune ninfe imbandiscono una mensa con vivande e libagioni, Teseo chiede spiegazioni ad Acheloo su quanto il bel panorama marino, tempestato di alcune isole, gli offre alla vista. Acheloo spiega che quattro delle terre che si vedono sono Naiadi trasformate per volere di Diana; la quinta, più lontana, ha invece una storia diversa e che gli è particolarmente cara. È questa la terra di Perimele che un tempo era una fanciulla amata dal fiume[91], ma, il padre Ippodamante, venuto a conoscenza della loro storia d’amore, getta la fanciulla dalla rupe. Acheloo, disperato, invoca l’aiuto di Nettuno[92] che, prontamente, trasforma la fanciulla in isola. La fabula qui dipinta rappresenta, quindi, il momento dell’ospitalità all’interno della grotta e, asincronicamente, la trasposizione visiva del racconto che Acheloo fa ai tre eroi[93].
La vicenda sopra narrata prosegue nel testo ovidiano con l’incredulità di Piritoo di fronte alle parole del fiume che dichiara che agli dei non era concesso giocare con la vita degli uomini. Lelege, più vecchio e saggio, per stemperare la tensione che si era venuta a creare, racconta un’altra storia avvenuta in Frigia, della quale può fornire anche lui testimonianza dell’effetto prodotto. Un giorno Giove e Mercurio scendono sulla terra in forma umana e vanno di casa in casa in cerca di ospitalità. Bussano a più di mille porte, ma nessuno li fa entrare fin quando vengono accolti in una povera capanna con tetto di paglia e canne palustri, da Bauci e suo marito Filemone[94]. I due, lì, sono invecchiati insieme e, per accogliere al meglio gli ospiti, allestiscono una tavola e imbandiscono una mensa con le poche cose che hanno. Ad un certo punto i coniugi si accorgono che il boccale dal quale tante volte il vino è stato versato è ancora pieno e così, spaventati, si mettono a pregare il cielo per aver offerto ai potenti viandanti una sì povera cena. Decidono allora di uccidere l’unica oca che hanno la quale, rincorsa, comincia a scappare in lungo e in largo beffando i due vecchietti fin quando non va a rifugiarsi proprio tra le gambe degli ospiti. I due allora si rivelano e chiedono a Bauci e Filemone di seguirli su un monte. Raggiunta la cima, gli dei mostrano agli anziani che la vallata dove erano le case dei vicini, puniti per il loro comportamento, era ormai ricoperta da una palude e la loro capanna era stata trasformata in un tempio. Gli sposi chiedono a Giove e Mercurio di diventarne i sacerdoti ma, soprattutto, entrambi li supplicano di risparmiar loro il dolore di vedere morire l’un l’altro. Giunto il loro tempo Bauci e Filemone si ricoprono di fronde, si salutano con amore e si trasformano uno in una quercia e l’altra in un tiglio, uniti insieme alla base del tronco di un maestoso albero che tuttora esiste[95].
Alla luce della spiegazione appare chiara la lettura della raffigurazione. I due seduti alla mensa sono Giove, l’anziano barbato con abito rosso e mantello azzurro, e Mercurio, giovane glabro con tanti riccioli biondi. Gli dei stanno mangiando le povere cose che i due coniugi gli hanno offerto mentre Bauci insegue l’oca[96] spaventata. L’albero in primo piano altro non è che la conclusione della fabula: il ramo più grande è la quercia, il più piccolo il tiglio emblema della metamorfosi eternalizzante[97].

4° ASCENDENZE E DISCENDENZE: L’IMPORTANZA DELLA STIRPE

La narrazione delle fabule[98] prosegue anche nella parete di fondo.
La scena di sinistra è bipartita in altrettanti momenti narrativi. Si apre a manca con una grotta con degli arbusti, al cui interno si scorge una belva maculata, con le fauci aperte, echeggiante le illustrazioni medievali dei bestiari, di chiaro sapore fantastico, verso la quale si sta avvicinando cautamente una figura, che risulta però mal leggibile, abbigliata con una veste (o una parte di essa) rossa. Procedendo nel senso della lettura, in acqua, è una creatura marina, di cui si ravvisa la pinna e, ancora, un tritone che emerso dai fondali, sta dialogando con un individuo, anch’esso abbigliato di rosso, che gli si rivolge agitando le braccia. In primo piano è un albero da cui pende un pomo d’oro (FIG.37). Nell’XI libro delle Metamorfosi di Ovidio[99] è rivelata la vicenda di Peleo e Teti, genitori di Achille. La bellissima ninfa era stata notata da alcune divinità, tra le quali Giove, ma siccome le era stato predetto che il figlio da lei partorito avrebbe superato in grandezza il padre, il re degli dei non ne vuole sapere di unirsi a lei. Invoglia, invece, il nipote Peleo rivelandogli che ella spesso dimorava in una grotta nei pressi del mare dell’Emonia, vicino ad un bosco di mirti, che raggiungeva nuda a dorso di un delfino. Peleo arriva alla grotta e trova la ninfa addormentata e cerca di violentarla, ma ella dotata di natura metamorfica, più volte cambia aspetto finché, trasformatasi in tigre, Peleo fugge atterrito e si mette a pregare il dio del mare offrendogli anche delle libagioni. Lo raggiunge Proteo[100] che gli consiglia di aspettare che la nereide si addormenti, di legarla, di non spaventarsi durante le mutazioni e di stringerla a sé fin quando non abbia riacquistato l’aspetto originario. L’amplesso sarebbe andato a buon fine e dall’unione ne sarebbe nato un grande figlio.
La fabula corcianese mostra due eventi asincroni della vicenda ovidiana, accanto ad alcuni elementi simbolici. A destra è l’incontro di Peleo e Proteo, al centro della scena è il delfino di Teti e alla sinistra incontro tra il padre di Achille e la ninfa metamorfica già alla mercè del giovane poiché incatenata[101]. L’albero in primo piano con il grande frutto d’oro si riferisce invece al pomo o mela della discordia che viene lanciato dalla dea Eris sul tavolo dove si stava svolgendo il banchetto in onore del matrimonio di Peleo e Teti. La dea, per vendicarsi del mancato invito alla festa, incide sul pomo la frase “Alla più bella”, causando così una lite furibonda fra Era, regina degli dei, Afrodite, dea dell’amore, e Atena, dea della saggezza[102]. C’è da puntualizzare però che né Ovidio né l’Anguillara citano l’evento del pomo di Eris[103]. Nella fabula sono, quindi, presenti l’antefatto e l’emblema dello scioglimento della vicenda.
Dal punto di vista figurativo e narrativo, la scena di destra è piuttosto complessa e suddivisa in molteplici sezioni che corrispondono ad altrettanti episodi disposti su piani scenici differenti, riprodotti secondo una visione prospettica (FIG.39). In alto a sinistra, in lontananza, quasi sullo sfondo, un individuo si sta gettando da una rupe, mentre più in basso, una creatura marina, sorta di sirena di cui si scorge chiaramente la pinna verde[104], lo sta accogliendo a braccia aperte.  Ancora sotto, in una fascia prospetticamente più vicina rispetto alla precedente, un coronato sta trascinando un corpo muliebre accanto al quale è un bambino. Più giù, nelle viscere della terra, ma quasi in primo piano, è un personaggio, imberbe, di cui si scorge bene un copricapo alato, che abbraccia una donna con gli occhi chiusi. Procedendo verso il centro, sempre nello stesso registro inferiore, è una pozza d’acqua e, in primo piano, accanto ad un albero, è una figura, con volto di profilo rivolto verso il centro della fabula, corpo frontale, mano destra che regge l’arco poggiante a terra. L’individuo, serio e pensieroso, è connotato da una chioma trattenuta sulla fronte da un nastro e raccolta in una sphendòn. Indossa una veste corta e gli stivali. Il confronto con alcune immagini, soprattutto di derivazioni prassitelica[105], in cui la vergine guerriera Diana (o Artemide) è raffigurata, stante e posata, appoggiata a un tronco d’albero, con l’arco nella sinistra, mentre la mano destra è sul fianco, ha consentito l’identificazione della figura corcianese.
Tornando alla fabula, sopra lo specchio d’acqua, ad una media distanza dall’osservatore, è una giovane semi recumbente, tra le fiamme con lo sguardo e un braccio rivolti verso la divinità, di cui sopra, che la sta osservando.  Più in alto, all’interno di uno squarcio tra le nubi è una figura, purtroppo interessata da una vasta lacuna, che imbraccia un arco.
Lo svelamento di una parte della rappresentazione avviene ancora una volta dall’esame delle Metamorfosi di Ovidio. Tra la fine dell’XI e l’inizio del XII libro è narrata la vicenda di Esaco, figlio di Priamo e della prima moglie il quale, disdegnando il lusso e l’agio della corte, si ritira a vivere tra i boschi dove si innamora della ninfa Esperia che un giorno vede mentre si sta asciugando i bei capelli del colore del sole. Ella, accortasi dell’uomo, si spaventa e, mentre fugge, viene morsa da un serpente che l’uccide. Disperato Esaco, ritenendosi causa della morte dell’amata, decide di buttarsi in mare ma Teti[106], impietosita, attenua la caduta del giovane e lo fa ricoprire di piume trasformandolo in un mergo, o smergo, uccello acquatico che spesso immerge la testa in acqua quasi come se volesse togliersi la vita[107]. Nella sequenza che va dall’area centrale della zona di sinistra verso la zona sommitale della medesima fascia, è rappresentato l’episodio di Esaco che si sta gettando dalla rupe e Teti che lo accoglie con le braccia aperte. Il racconto ovidiano prosegue nel libro successivo e narra come Priamo, Ettore e tutta Troia piangano la scomparsa del congiunto che viene creduto morto. Manca solo Paride che, avendo rapito Elena, la sta portando in città. I greci non lo possono inseguire perché una tempesta sta bloccando le navi in porto e, dopo vari auspici che rivelano loro che la guerra durerà nove anni, sarà molto faticosa, ma avrà esito positivo, decidono di sacrificare una vergine a Diana. Ifigenia si offre in olocausto, ma proprio mentre si sta per immolare l’estremo sacrificio, la dea stende una nube sui presenti e sostituisce la giovane micenea con una cerva[108]. Nella raffigurazione corcianese, entro il nembo posto al centro della fabula, è dipinta Diana munita di arco[109] e, nella parte sottostante, è Ifigenia in mezzo alle fiamme. Come detto, la fanciulla tende il braccio alla dea che, rappresentata due volte nella stessa sequenza scenica, la guarda misericordiosa. Per esser posta nei pressi di uno specchio d’acqua e per aver la figura androgina la fronte coronata da un serto, questa immagine ricorda molto Orfeo nell’atto in cui, dopo aver fallito il compito di riportare in vita l’amata Euridice, triste e sconsolato, rimane per giorni sulle rive infernali sperando in un miracoloso ritorno della sua sposa[110].  Il personaggio con copricapo alato dipinto nelle viscere delle terra, oltre lo specchio d’acqua (palude Stigia), quindi negli inferi, che abbraccia una giovane donna, alludente al mito di Euridice, potrebbe essere identificato con Mercurio psicopompo, con petaso alato[111].
Un’ultima sequenza, narrata alla base della rupe da cui si sta gettando Esaco, completa questo riquadro assai nutrito. L’episodio in questione, non raccontato né nelle Metamorfosi di Ovidio né nella volgarizzazione dell’Anguillara, illustra la vicenda di Priamo e della sorella Cilla. Secondo il racconto, mentre Ecuba, seconda moglie dell’ultimo re di Troia, era incinta di Paride, questa fa un sogno che viene vaticinato da Esaco. L’oracolo profetizza che il nascituro avrebbe condotto Troia alla rovina e che tutte le principesse che avessero partorito di lì a poco avrebbero dovuto essere uccise insieme alla prole. Il giorno stesso partoriscono sia Ecuba, che viene risparmiata, sia Cilla che, invece, viene uccisa dal fratello e seppellita all’interno del recinto sacro della città. La scena raffigura proprio il momento in cui il re Priamo trascina il corpo inerme della sorella accanto al quale è dipinto anche il bambino[112].
In questi due quadri così articolati illustrati nella parete di fondo, si assiste ad un complesso intreccio nel quale il pittore introduce analessi e prolessi per ampliare la dilatazione temporale di un racconto che vede protagonisti diversi attori che portano alla mente sì antefatti narrativi precedenti la guerra di Troia[113], ma che evocano anche i destini di Achille e Paride non citati direttamente[114].

CONCLUSIONI

Dopo aver svelato, con non poca difficoltà, le singole fabule c’è da metabolizzare il significato intrinseco in esse celato e il rapporto che le mette in relazione l’una alle altre, incastonandole in un tessuto narrativo complesso e per certi versi ancora oscuro. Il committente, traducendo in immagini quanto conservato nella prestigiosa biblioteca di famiglia, ha dato voce ad una scelta antologica articolata in cui ogni personaggio entra a far parte di una sorta di pantheon didascalico foriero di messaggi che forse non potranno mai esser compresi fino in fondo. Ciò che appare chiaro è che la cultura doveva esser guida, fonte di ispirazione, ammonimento per il signore, i suoi ospiti, i suoi alleati e i suoi avversari.
Da quanto fin qui esposto appare evidente come le scene, escluse la prime quattro che sembrano formare un corpo unico, vadano lette a due a due a partire dalla parete di sinistra, secondo uno sviluppo che non sempre segue l’ordine dei libri ovidiani[115]. Di ogni narrazione sono stati scelti pochi particolari selezionati, di norma poco noti e, in quasi tutti i casi, proposti con iconografie inconsuete. L’autore, certamente sotto l’egida dei committenti, ha privilegiato una dimensione eternalizzante ed emblematica più che quella della sola completezza narrativa.
Il rapporto tra Letteratura e Arte evidenzia come la seconda disciplina altro non sia che traduzione iconografica della prima, letta non solo per piacere ma come valore fondante della coscienza della propria classe sociale. La rappresentazione artistica si può quindi permettere il lusso di piegare, adattare, contaminare, fondere tematiche dando vita ad una nuova esegesi, qualora il committente lo voglia. Le fabule, complicati palinsesti densi di richiami letterari che meglio echeggiano le virtù dei committenti ed espressione della glorificazione del casato, sono raccordate da grottesche che non solo creano fluidi reticoli di forme e colori, ma assumono un contorno moraleggiante del quale non sempre è agevole svelarne il collegamento semantico.
Corciano non è il primo caso in cui la narrazione sia composta da vicende che traggono ispirazione da fonti diverse tanto che, spesso, l’eterogeneità compare anche all’interno della medesima scena.  È plausibile dire che a uguali fregi corrisponda il continuum espositivo della stessa vicenda letteraria o dello stesso concetto iconologico anche se tratto da molteplici fonti. Tutte le figurazioni sono state eseguite alla maniera rinascimentale, dando spazio ad un grafismo moderno che mostra un interesse nuovo nei confronti della pittura di paesaggio in quanto tale o popolato di figure cinetiche ovvero con le vesti mosse dal vento e in continuo rapporto sintomatico con l’ambientazione di cui fanno parte. La particolarità degli episodi corcianesi è, però, che questi non trovano confronto con quelli dipinti nelle altre dimore corgnesche, dove le immagini, pur nella loro molteplicità, sono tratte da canovacci maggiormente connotati. Si può dire che qui ci sia stata proprio la volontà di dare voce ad episodi inconsueti o di narrare storie proponendo nuovi topoi e visualizzare passi tralasciati dai corredi iconografici precedenti. Certamente il deus ex machina del ciclo è un personaggio colto e aggiornato alle mode letterarie ed artistiche del momento e, come detto, la fabula non viene raccontata in quanto fine a se stessa, ma perché foriera di contenuti che talvolta dovevano essere svelati da abili oratori.
Il fatto che proprio a Corciano e non nelle prossime residenze di Pieve del Vescovo e Colle del Cardinale dove le decorazioni non sono così enigmatiche e oscure, i committenti abbiano voluto attuare un tale mecenatismo culturale, dando un così alto sfoggio del proprio sapere, è interessante sia per comprendere la natura estremamente pubblica rivestita da questo palazzo, che per farsi un’idea di quello che doveva essere lo stimolante clima intellettuale locale. Come già evidenziato, le sollecitazioni artistiche non mancavano e la decorazione dell’abside del Serraglio, citata in apertura di questo studio, è proprio il manifesto di tendenze assolutamente innovative. La società corcianese era in quegli anni animata da personaggi di grande rilievo come, per esempio, Fabrizio Ballarini (1561-1609) e Bernardino Doni (1554-1591), protagonisti di importanti viaggi, come lo straordinario pellegrinaggio di Fabrizio a Santiago di Compostela, o la trasferta a Firenze intrapresa da entrambi, in occasione delle nozze del granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena, solo per il piacere di essere partecipi dell’evento e del favoloso clima culturale da esso derivante[116]. Lo stesso Marcantonio Bonciario, già scolaretto corcianese anche se originario di Villa di Magione[117], immortalato nel sipario del sopra menzionato teatro del seminario[118], doveva esser di casa a Corciano accanto agli altri letterati legati alla famiglia dei della Corgna, da Cesare Caporali, a Francesco detto il Coppetta, a Scipione Tolomei.
Al di là di quanto appena esposto, è importante sottolineare come la comunità di Corciano, da secoli forte della propria autonomia amministrativa, forse mal sopportasse la volontà di strapotere corgnesco. Il malcontento traspare dalle carte processuali della vertenza inoltrata dal cardinale Fulvio contro gli uomini di Corciano a proposito di alcune prestazioni relative ai lavori presso la residenza di Pieve del Vescovo[119]. Gli affreschi potrebbero essere una risposta anche a questa controversia e un’esplicita dimostrazione dei propositi di autorevolezza attuati dalla famiglia anche attraverso lo sfoggio enciclopedico della propria ricchezza culturale.
Considerato il mediocre stato di conservazione della sala che in più punti mostra sovrapposizioni, integrazioni, ritocchi e interventi più tardi è assolutamente impossibile proporre un’attribuzione stilistica certa. È chiaro che gli autori debbano essere ricercati all’intero della schiera di pittori che, tra gli anni Settanta e Ottanta del Cinquecento, gravita nell’orbita della famiglia capeggiata da figure di spessore del calibro di Salvio Savini, Niccolò Circignani detto il Pomarancio e Giovan Antonio Pandolfi che, pur di lavorare per siffatti committenti, partecipano a cantieri indubbiamente più periferici.
L’evidenza di una mano più sommaria e veloce, rilevabile nelle prime due campate, accanto ad un’altra più dotta e precisa, potrebbe essere solo il frutto dello stato di conservazione, di interventi posteriori troppi decisi e restauri invasivi che hanno eliminato le finiture, portando alla luce, in alcuni punti, anche il disegno preparatorio.
Ciò che al fine emerge è che, ancora una volta, questo ciclo fa di Corciano un precursore nell’ambito della decorazione di residenze private.

  1. UN POSSIBILE ITINERARIO CORGNESCO

A conclusione dell’itinerario legato ai luoghi corgneschi corcianesi, per l’indissolubile legame tra l’istituzione di questa festività e la famiglia dei della Corgna[120], deve esser citato l’altare della Madonna del Rosario posto nella chiesa parrocchiale[121] (FIG.41). La vetusta ara della Madonna, già dalla metà del XVI secolo intitolata al Rosario, subisce dei rifacimenti tra il 1611 e il 1613[122], a seguito dei lavori di riadattamento dell’area presbiteriale e degli altari comunitari della chiesa, conseguenti a quelli che erano i nuovi dettami liturgici post-conciliari. In questa occasione, l’antica statua della Madonna si contorna degli affreschi dei Misteri del Rosario. Questi scampano poi alla distruzione del 1850, quando la chiesa viene ricostruita quasi nella sua totalità[123]. Uno studio pubblicato in occasione di un restauro del 2016 ha stabilito che, con ogni probabilità, le pitture debbano esser riferite al pittore perugino Benedetto Bandiera. Alla base della proposta, oltre la tradizione locale che gliele assegnava e il fatto che il pittore in quegli anni esegue per Corciano almeno altre due opere (la Pala di Sant’Anna, oggi nella chiesa di San Francesco ma realizzata per l’ara omonima della parrocchiale nel 1606, e la Trinità tra i santi Agostino, Barbara, Sebastiano, Michele e Rocco commissionata nel 1616 dalla Comunità corcianese per l’altare pubblico nella chiesa agostiniana[124]), c’è la consonanza stilistica che evidenzia nelle essenziali miniature dei misteri chiari spunti barocceschi, offerti in una veste altamente devozionale, tipici della cultura controriformistica e del ductus del Bandiera. L’altare, sia nella stesura originaria che nel restauro ottocentesco[125], è un chiaro omaggio a Pietro Perugino e una citazione evidente della pala dell’Assunta conservata nella stessa chiesa. Lo dimostrano la scelta iconografica dell’Annunciazione e della Natività e i quattordici serafini, in monocromo, che riprendono chiaramente quelli dipinti da Perugino nella mandorla attorno alla Vergine, qui quasi personificazione metamorfica che dall’antropomorfo vira verso la rappresentazione aeriforme della città celeste.