Una tabula patronatus da Sentinum all’Accademia Etrusca di Cortona

di Paolo Bruschetti

L’articolo dell’archeologo Paolo Bruschetti propone un interessante caso di storia antiquaria che si dipana nella prima metà del XVIII secolo, di cui è protagonista un “patritius perusinus”

Nelle collezioni storiche del MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona è presente una tabula patronatus incisa su un supporto in lamina di bronzo frammentario, montato su una cornice lignea intagliata a misura (fig. 1) [1].
Sulla parte posteriore del supporto, ad inchiostro, è l’indicazione sul donatore (fig. 2): ACADEM · ETRUSCOR / D. D. / ABBAS DIAMANTES MONTEMELLINUS / PATRITIUS PERUSINUS. Sotto è riportata la trascrizione dell’epigrafe, con una annotazione che sembra riferibile a Reginaldo Sellari, segretario dell’Accademia (fig. 3): vide Reginaldo Inscriptiones Cortonenses M S S in paginam VI finem [2]. Quanto all’epoca dell’acquisizione, essa resta incerta; ma è avvenuta certamente nei primi anni di vita del sodalizio cortonese, essendo rammentata nelle Inscriptiones antiquae del Gori, edite nel 1734 come dono di Montemellini all’Accademia; sulla scorta dell’archeologo fiorentino, essa è citata con le stesse indicazioni da Muratori e da Vermiglioli, il quale identifica la data del dono nel 1730 [3]. Come segno di riconoscenza per il dono ricevuto, o come segno di gratitudine verso la nomina ad accademico, il Montemellini compare come socio nominato in un opuscolo non datato, ma redatto nei primi anni di vita dell’Accademia probabilmente dallo stesso Marcello Venuti (fig. 4), ed il suo nome è nell’elenco dei donatori [4]. Diamante Montemellini (o Montemelini) apparteneva ad una delle famiglie patrizie perugine, i cui ultimi rami si estinsero nel corso del XVIII secolo [5]; le proprietà di famiglia si estendevano in città e nel contado perugino, fino al lago Trasimeno e alla valle del Niccone. L’esistenza della casata è documentata a partire dalla fine del XII secolo, allorchè possedeva anche il castello di Monte Gualandro presso Tuoro, la rocca di Monte Ruffiano presso Passignano e parte del castello di Valiano presso Montepulciano; il nome era legato al possesso del castello di Montemelino, posto al culmine di un rilievo a dominio della pianura del Caina, fra Perugia e Magione. In città i Montemelini vollero la costruzione di un palazzo nelle forme architettoniche del tardo Cinquecento, in piazza Piccinino, una posizione centrale fra il palazzo dei Priori e la Cattedrale, attualmente di proprietà dei marchesi Ranieri Bourbon di Sorbello [6].

Il conte Diamante Montemellini [7], nato intorno al 1677, fu modesto poeta di gusto arcadico [8]; contribuì validamente come assessore alla istituzione della Accademia Augusta, costituita in Perugia, nel palazzo Eugeni, presieduta dal marchese Camillo Della Penna, fondata nel 1707 come “colonia” della più generale Arcadia; di essa fu socio con il nome di Nisandro Fireate [9].

All’attività poetica si affiancò una notevole capacità erudita: Vermiglioli ne loda la “premura di raccogliere e conservare le antichità della Patria”, ricordando “il suo bel Museo d’ogni antichità ornato” [10]; ne cita anche la vivacità dei rapporti con altri collezionisti – viene ricordato il sodalizio con Giovanni Battista Passeri – e la capacità critica sintetizzata in “alcune sue schede lapidarie di monumenti perugini con qualche interessante notizia [che] io conservo attualmente presso di me”; ed infatti in varie pagine delle sue Iscrizioni cita le schede, oltre ai materiali ricordati come provenienti dal Museo del Conte: le schede, manoscritte, si riferiscono in genere a iscrizioni funerarie, delle quali però non sono ricordate né la collocazione né la provenienza [11]. È significativa, a proposito del Museo Montemelini, la citazione che ne fa Marcello Venuti: nella sua Descrizione della Città di Ercolano rammenta infatti una “rarissima medaglia di metallo … posseduta dal Signor Conte Diamante Montemelini Perugino, anch’esso della medesima Accademia [Etrusca]” [12]; Marcello, che assieme ai fratelli fu fondatore e anima dell’Accademia Etrusca, evidentemente conosceva l’ambiente perugino e le sue raccolte di antichità: fra esse certamente aveva frequentato la collezione Montemelini e il suo ordinatore; è pertanto verosimile che da tale conoscenza derivasse la proposta di accoglierlo come socio accademico e il dono da esso fatto della tabula già conservata fra le sue raccolte.

Il Montemelini partecipò attivamente alla vita culturale della sua città, che pure era, a testimonianza del Bonazzi, miserevole e vuota, sia per la mancanza di spirito di iniziativa dei nobili e la “pretina apatia”, sia soprattutto per il diffuso malgoverno pontificio [13]. Si è accennato all’adesione all’Arcadia; a quel movimento aderì anche Alessandro Albani – con il nome di Chrisalgus Acidanteus – il noto cardinale urbinate che alla spregiudicata azione politica unì uno spiccato gusto antiquario e una diffusa tendenza al mecenatismo: anche Albani fu socio dell’Accademia Etrusca e Lucumone nel 1735; entrambi furono corrispondenti di Anton Francesco Gori, come pure i fratelli Venuti [14]: tornano singolari punti di contatto fra tutti questi personaggi, forse casuali, ma certo non improponibili.

Risulta la sua partecipazione alla revisione degli statuti del “Venerabile Monte Spinello”, pubblicati nel 1743; era questa una confraternita istituita con testamento del 1578 di Antonio Spinelli, finalizzata allo scopo di dotare ogni anno quattro zitelle, povere, oneste e di età nubile [15]; su tale partecipazione sorge il dubbio di una omonimia, risultando i curatori “eletti dall’adunanza …. il 23 dicembre 1666”; ma potrebbe trattarsi solo di un errore di trascrizione di date. Fu membro della “Congregazione sopra la Libreria”, una sorta di collegio di uomini prudenti e probi che assieme al Magistrato provvedessero a deliberare le norme utili ad una corretta gestione dell’Istituto; nella Congregazione, istituita nel 1617, il Montemelini compare come firmatario di deliberazioni prese nel 1752 e nel 1755 [16]. Particolarmente intensa fu la sua partecipazione agli insegnamenti universitari; risulta infatti come incaricato di Diritto Civile nel 1699 senza salario, con rinnovo nell’anno successivo con salario tenuissimo; ancora docente di Diritto Civile nel 1708, di Diritto Canonico nel 1712; Lettore di libri ordinari nel 1715; fu pensionato nel 1729 [17].

Fu contemporaneo di Niccolò Montemellini (1643-1723), modesto verseggiatore, più propenso al mecenatismo e anche lui attivo promotore di cultura in città e corrispondente di intellettuali e letterati a cavallo fra Seicento e Settecento [18]; e di Orazio Montemellini, meno noto e ricordato; non sono chiari tuttavia i rapporti di parentela fra questi personaggi, che in ogni caso vanno visti come gli ultimi esponenti dei vari rami della casata. Un documento a stampa datato 7 dicembre 1728 riporta l’esito di un giudizio di successione che vide protagonista il nostro personaggio; una succinta tabella genealogica, allegata all’atto, indica le più recenti ramificazioni della famiglia: da essa risulta che Diamante era sposato con una Eleonora Pinna ed aveva un figlio, Giuseppe, infans al momento della stesura. Ma al di là dell’indicazione delle varie proprietà della famiglia e della sorte di esse dopo il giudizio, pur sempre interessanti anche se complesse e a tratti molto contorte, non vi sono informazioni circa i possedimenti in città né tanto meno sull’esistenza di patrimoni o beni di interesse artistico [19].

Diamante Montemelini morì nel 1757: in una Notizia manoscritta di Annibale Mariotti [20], si ricorda che  a dì 23 ottobre 1757 morì il Sig.r Dottor Diamante Montemelini, Lettore giubilato in questa Università, in età di anni ottanta, ed al funerale intervenne il Coll.o dei Legisti. In capo alla notizia è lo stemma di famiglia, con tre monti azzurri in campo argento (fig. 5).

È stato ricordato il Museo che Diamante Montemelini ordinò in una sua residenza perugina; oltre alle rapide citazioni cui si è fatto cenno, una descrizione più accurata viene dalla Guida di Baldassarre Orsini del 1784 [21]: nel capitolo dedicato a Porta S. Angelo, dopo l’illustrazione della Chiesa di San Fortunato dei Monaci Silvestrini, Orsini parla del palazzo delli nobili Signori Borgia-Montemellini, nel quale risplende un raro Museo… acquisto del nobil fu Signor Diamante Montemellini. Al di là del tono encomiastico e meravigliato della descrizione, è possibile apprezzare la quantità e la qualità dei materiali conservati: una raccolta evidentemente eterogenea, che risponde ai gusti e alle caratteristiche del collezionismo settecentesco: vi sono oggetti in bronzo, ceramiche decorate con figure etrusche, sculture in marmo; ma anche pitture di vari artisti, fra i quali due attribuite al Perugino, uno studio di Guido Reni ed opere di altri artisti italiani e stranieri, e miniature (ritrattini in ovati), ed una serie di disegni, che svolgevano anche la funzione di elementi di arredo di una dimora signorile. La raccolta doveva comprendere anche un nucleo di monete, fra cui una della zecca eugubina, e tessere: una (definita pezzo di metallo che pare fosse fatto per imprimere) viene messa a confronto con una moneta eugubina [22]. Intenso doveva essere il rapporto con Giovan Battista Passeri, il noto collezionista e raccoglitore pesarese, che addirittura dedica a Montemelini una sua opera, ricordandone i meriti di raccoglitore di memorie e di testimonianze della storia patria (fig. 6) [23].

Con la scomparsa di Diamante Montemelini e l’estinzione della casata, evidentemente anche il museo da lui raccolto cadde nell’oblio, se pure continuò ad esistere per qualche decennio, come dimostrano le citazioni; nel 1795 le raccolte passarono al Museo Oddi, probabilmente depauperate in qualche loro parte [24].

La tabula patronatus donata da Montemelini all’Accademia Etrusca non ha, come del resto appare verosimile per gli altri materiali archeologici della raccolta, dati certi di provenienza. Si può solo ipotizzare un’origine dalla città di Sentinum sulla base di alcune lettere superstiti nella seconda riga dellʼiscrizione. Con ogni probabilità la lastra era danneggiata ben prima del passaggio alle collezioni accademiche. Se ne conserva la parte destra, ricomposta da due frammenti contigui, dai bordi leggermente piegati lungo la linea di frattura. Sul margine di rottura sinistro la tabula è tagliata con andamento circolare molto preciso, con bordi ribattuti, quasi a formare un incastro: tale manomissione tuttavia non copre le lettere sottostanti, che restano visibili. La parte superiore è tagliata secondo un angolo netto e con bordi abbastanza regolari. Un foro nel frammento superiore è stato identificato come destinato ad un chiodo per l’affissione, ma è possibile che sia dovuto ad un intervento successivo, magari per consentirne l’attacco ad un supporto, in quanto si sovrappone ad una delle lettere della settima riga. Il campo epigrafico è delimitato da una semplice cornice, larga cm. 3/3,4, di cui rimane traccia anche in corrispondenza del bordo superiore. La lastra presenta un’altezza massima di cm. 40 (cm. 27,7 sul lato destro); la larghezza misura da un minimo di cm.13,9 ad un massimo di 20,9; lo spessore – ricavabile da alcune piccole lacune del supporto ligneo – varia fra i mm. 3 e i 3,5. Lʼaltezza delle lettere oscilla fra mm. 0,8 e 1,4, ad eccezione della prima riga, di mm. 2,3 e della seconda, di mm. 1,7. Il supporto nel quale il bronzo è inserito misura cm. 43,1 di altezza e cm. 22,5/22,8 di larghezza. Date le condizioni di frammentarietà, non è possibile ipotizzare le misure originali della tabula; tenendo anche conto delle dimensioni medie di questa categoria di lastre, dellʼiscrizione risulta rimanere la parte superiore e centrale destra – come si evince dal residuo di incorniciatura -, con una perdita della porzione inferiore e di quella sinistra. La lacuna maggiore risulta essere quella sinistra: la mancanza di circa due terzi del testo in questa parte sembra confermata dallʼunica integrazione di riga quasi completa che è possibile proporre (r. 9). La notevole estensione delle lacune impedisce di integrare il testo perduto a sinistra e in basso. Tuttavia, la nuova autopsia sullʼepigrafe ha portato ad alcune precisazioni e letture, che qui si propongono come ipotesi di lavoro[25].

[- – -] Maxim[o et?]
[- – – co(n)s(ulibus) – – – ?] kal(end-) Iun(i-) Sen[tini]
[- – -]t quinqum virị
[- – -]VQ IIII viris i(ure) d(icundo)

5 [- – -]orum et originis
[- – – vi]r(um) splendidissimum
[- – – e]iusdem Quinti=
[ani – – -]m patronum p(atriae) n(ostrae)
[- – – ? tabulam aeream verba decr]eti nostri con=

10 [tinentem offerri – – – testifi]cationẹm intel=
[legat – – – ]+atum
[- – -] +(- – -) c(- – -) s(- – -)
[- – -] Rufi p(atroni) p(atriae) n(ostrae) esse consen=
[taneum – – -] M(arci) Aureli, Q(uinti) Quintia=

15 [ni – – -]m s(upra) s(criptum) bone indolis
[- – -] de eius honorifi=
[centia – – -]+++++
– – – – – -.

Nella quarta riga, il controllo autoptico induce ad escludere la lettura di una stringa -IO (come in CIL e Donati): rimane incerto se i due caratteri siano componenti distinte di una sigla o la parte finale di un termine con congiunzione enclitica. Alla r. 6 lʼultima lettera è incisa a metà, per non sovrapporla alla cornice. Il contenuto della nona riga è lʼunico per il quale può essere proposta unʼintegrazione, grazie ai confronti che possono essere istituiti: è possibile anche il corrispondente aggettivo aeneam[26]. A riga 11, sulla linea di frattura potrebbe conservarsi lʼangolo inferiore di una N: tra le integrazioni possibili, va citata, per il contesto, [patro]natum; nella successiva (r. 12), il segno orizzontale visibile in frattura può essere attribuito al tratto di base di una lettera, per la quale sussistono svariate possibilità di lettura: i tre caratteri sono gli ultimi di una sigla non individuabile, che deve rientrare nel novero delle abbreviazioni utilizzate in questa tipologia di testi nel passaggio da una sezione allʼaltra [27]. Lungo la linea di frattura inferiore si scorge minima traccia dellʼestremità superiore di almeno cinque lettere, non identificabili.

Nonostante lo stato frammentario del reperto, è possibile apprezzare la tipica struttura testuale di una tabula patronatus, con successione di praescriptio, relatio e sententia. Al pari delle restanti tabulae patronatus provenienti da Sentinum (CIL, XI 5748-5750) e di molte altre[28], il testo si apre con la successione di coppia consolare, data e luogo. Collocandosi lʼindicazione della data e del luogo in seconda riga, si può ritenere che la prima riga conservata corrisponda alla prima effettiva del testo, contenente il nome del primo console, mentre lʼaltro doveva figurare alla riga successiva. Dei diversi consoli con cognome Maximus noti per il III sec. d.C. sarà da considerare quello del 256 d.C., L. Valerius Maximus, che compare insieme a M. Acilius Glabrio nellʼincipit della tabula pisaurense CIL, XI 6335 = ILS 7218[29], ma anche, tenendo conto della distribuzione cronologica delle restanti tabulae sentinati fra 260 e 261, il console del 263 d.C. L’atto fu stipulato in una data coincidente o prossima al 1° di giugno, in una città che appare verosimilmente da identificare con Sentinum,  alla presenza dei quattuorviri iure dicundo nella loro funzione di magistrati locali con potere giusdicente. Assai significativa, anche per lʼinquadramento cronologico dellʼepigrafe, è lʼespressione vir(um) splendidissimum che ricorre in r. 6, da riferire al patrono: tale definizione, infatti, a partire dai decenni centrali del III sec. d.C. è usata in epigrafia per notabili municipali insigniti del patronato, a sottolinearne il prestigio familiare, tanto che ricorre frequentemente nelle tabulae patronatus[30]. Il personaggio cooptato come patrono è un Quintianus,  nome che non vanta altre ricorrenze nel patrimonio epigrafico di Sentinum [31].  L’ultima parte conservata descrive il merito del personaggio a ricevere l’onorificenza: in particolare vengono citati un Marcus Aurelius e un Quintus Quintianus. Circa il tipo di patronato, non vi sono elementi per indicare un possibile legame con un qualche collegium esistente nel centro di Sentinum, come invece risulta in altre delle tabulae di provenienza locale[32].  Più in generale si può pensare ad un patronato “civico”, come lascerebbe intendere lʼepiteto di patronum p(atriae) n(ostrae) attribuito a Quintianus. Appare invece sicuro, come d’altra parte è uso comune, che la tabula fosse la copia in bronzo destinata all’uso personale del patrono e ad essere esibita nella sua abitazione [33]: coerente con tale destinazione è la relativa eleganza dell’epigrafe, delimitata da un margine inciso con valore estetico.

In conclusione, al di là dell’interesse epigrafico dell’iscrizione, che va ad aggiungersi al corpus dei materiali sentinati, appare interessante la sua storia antiquaria e la serie di collegamenti che possono essere istituiti fra la classe intellettuale perugina, quella marchigiana e quella cortonese dell’impareggiabile prima metà del XVIII secolo, che vide la nascita e la straordinaria fioritura della moderna disciplina archeologica.